a canary in a coal mine
la visione di into the wild di sean penn mi ha lasciato in un mood di leggera sadness, e appena salito in auto già pensavo che una volta a casa avrei suonato in my own time della splendida mezzosangue cherokee karen dalton. a volte anche le sensazioni scatenano strani cortocircuiti. è un album recentemente ristampato dalla light in the attic records. seattle. originariamente prodotto nel 1971 da harvey brooks ai bearsville sound studios - woodstock ny - su suggerimento di un giovane bob dylan che l'amava per quella sua voce alla billie holiday e il suo stile nel suonare chitarra e banjo. ai tempi, la fine dei sixties, divideva il palco con gente come tim hardin, fred neil, dino valenti e lo stesso dylan
dylan - karen - neil
questa nuova edizione esce anche in vinile con uno splendido corredo fotografico e le lunghe note di nick cave, devendra banhart, che ha voluto registrare crippled crow proprio in quegli stessi studi alla ricerca di quelle stesse energie, e soprattutto lenny kaye, amico e contemporaneo.
non c'è molto altro da aggiungere, davvero la sua voce parla per lei. e come si può immaginare ascoltando quel suo cuore a nudo, gli occhi perennemente chiusi verso altri mondi, finì sola e in tragedia fino a morire homeless sulle strade di new york. era il 1993.
e che dire del film . quello di sean penn. una storia già vista già letta già sentita, ma che suona tutto sommato credibile dall'inizio alla fine in quanto di fatto vera. ci troviamo lo stesso disgusto delle anime sensibili verso il trattamento che sta riservando l'uomo agli uomini e alla terra in nome di un fantomatico inarrestabile progresso.
quello stesso disgusto che ha fatto della povera karen: